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Ossitocina

Una luce fredda bagna gli oggetti. Una musica senza melodia si diffonde nello spazio. Sulla scena un tavolino, una sedia rovesciata e un panno rosso. L’attrice entra in scena. Sembra proprio di essere di fronte ad uno strampalato spettacolo d’avanguardia, incomprensibile, noioso e pure mal recitato. Giulia, l’attrice di questa pièce, ha però altri pensieri per la testa, e dopo pochi minuti interrompe tutto, spezza la quarta parete e comincia a confidarsi col suo pubblico, trasformando la serata in una bizzarra seduta di psicoterapia: l’attrice è il paziente e gli spettatori il suo terapeuta. Un gioco a due dove il pubblico, guidato dalla protagonista, si ritrova ad avere un ruolo attivo e fondamentale dello spettacolo ponendo le domande della terapia.
Giulia racconta la sua delusione d’amore, le sue sventure, le sue nevrosi. Cerca risposte scientifiche che spieghino i sentimenti e leniscano la sofferenza. Tra pubblico e attrice si crea subito un rapporto intimo e di forte empatia: riconoscersi nei suoi turbamenti e nelle sue sventure è immediato. Giulia ricrea situazioni e personaggi diversi: la parrucchiera Rosy, psicoterapeuta deludente, il trittico familiare zia-mamma-nonna, prodigo di consigli ottusi e non sollecitati, Silvia, la sfacciata “amica” in comune con l’ex fidanzato, e lui, Stefano, che l’ha lasciata per avere i suoi spazi e potersi dedicare a tempo pieno alla sua nuova passione, l’ukulele. La vendetta, desiderio incontenibile, rimane forse l’unico sollievo possibile e a farne le spese sarà uno Stefano qualunque, pescato a caso.