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VENERE e ADONE

“Shakespeare / Venere e Adone in concerto” è la versione disidratata dello spettacolo che ha debuttato nel dicembre 2007, facendo ottenere a Malosti nel 2009 (insieme a Quattro Atti Profani di Tarantino) il premio della associazione Nazionale Critici di Teatro (ANCT) per la regia.
L’alta densità musicale dello spettacolo, grazie anche al lavoro sul suono del premio UBU 2104 G.u.p. Alcaro, ci ha convinto a tentare di proporne una versione senza scena, se non quella, ricchissima, sonora.

Londra, 1593. La peste sta devastando la città, i teatri sono chiusi. Shakespeare trova l’ispirazione, e un patrono, e scrive un piccolo capolavoro in versi: il poemetto erotico-mitologico Venere e Adone. Sarà, per l’epoca, un grandissimo successo, con numerose ristampe fino alla metà del secolo successivo, immancabile nei bordelli, quanto sotto il cuscino delle grandi signore aristocratiche e degli amatori. Venere e Adone sfugge a qualsiasi definizione: “comico oppure tragico, leggero oppure profondo, un inno alla Carne oppure un ammonimento contro la Lussuria: il poemetto è un mixtum in cui tutti i termini di queste antitesi sono simultaneamente veri. Introducendo nella sua storia un conflitto erotico che nelle Metamorfosi di Ovidio non era presente, Shakespeare ha fatto qualcosa di più che produrre un sicuro effetto comico — anche se questo “di più” passa precisamente e innanzitutto attraverso la comicità. “

Venere è una dea/macchina, dea ex machina ma anche sex machine, macchina barocca che tritura suoni e sputa parole. Una macchina di baci, una macchina schizofrenica di travestimento, una macchina di morte per l’oggetto del suo amore: Adone.
Adone ricorda il giovane dei Sonetti – il che implica, naturalmente, che Venere ricordi Shakespeare. Shakespeare scrive su commissione, durante la peste del 1593, per il suo giovanissimo patrono, l’efebico diciannovenne Henry Wriothesley conte di Southampton, di cui è stato ritrovato, un paio di anni fa, un ritratto in abiti femminili. Il gioco delle identità entra così in un labirinto di specchi e si scivola in una progressiva promiscuità delle individualità. In scena, la dea/macchina/attore en travesti, diventa anche Narratore e voce di Adone, divorando tutte le identità narranti.
Al di là del gioco degli specchi, del travestimento, dell’amaro umorismo, il poemetto è un vertiginoso punto di partenza per una ricerca sulle variazioni, le declinazioni e le contraddizioni del tema “amore”.
Ma Venere e Adone è anche una sorta di operina musicale: “il montaggio fonico attinge alle fonti acustiche più disparate, ai suoni della quotidianità sovrapposti a frequenze elettroniche e distorsioni, filtrando il tutto con musica elisabettiana e contemporanea. Musica come camera d’eco dei personaggi, come cartina di tornasole del loro spirito, musica che penetra dentro il testo, talvolta lo accarezza, più spesso entra in conflitto con esso per far schizzare scintille che ustionano ma anche illuminano.”

In modo delicato, a cominciare dalla magnifica sua traduzione, e pure nel contesto di un’allegoria cui mai viene meno, che mai tradisce, egli rende plastico e verosimile il dramma d’ amore. Malosti … è sempre solo, ovvero uno e trino: è il pacato narratore, è il riluttante oggetto del desiderio, è l’invasata Venere, un femminiello napoletano-pasoliniano, ora gentile, ora pazzo, furioso, possente. Scende e sale lungo la sua china emotiva, sia corporalmente che vocalmente, in un vortice ininterrotto, in un, ancora una volta, secondo il suo stile, dionisiaco schioccare di baci, baci che, come ho detto, uccidono, sono essi i segni ineluttabili del voluttuoso e tragico destino.
Franco Cordelli, Corriere della Sera

È inutile girarci intorno. Valter Malosti è un interprete di primissima levatura. Vederlo nel suo ultimo lavoro, Shakespeare/Venere e Adone, è scoprire la straordinaria maturità espressiva raggiunta: è l’alchimia di una ricerca fondata sul rigore, su percorsi di conoscenza che intrecciano antico e moderno, tradizione e sfrontatezza come libertà creativa. […] È un incanto vedere Malosti trascolorare da un personaggio all’altro, trasformare la parola shakespeariana in corpo e in voce, far deflagrare una potenzialità evocatrice che annulla ogni altro bisogno, che rende superflua qualunque altra presenza che non sia in quel suo flusso avvincente spalancato sul vortice dei sogni.
Alfonso Cipolla, La Repubblica