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Il Gioco del Fato

Il primo commento ai Dialoghi con Leucò si deve a Italo Calvino:
Calvino così esordisce:
Qualcuno, a leggere i Dialoghi con Leucò (Einaudi, 1947), ci rimarrà disorientato: questa da Pavese non se l’aspettava. Chi lo conosce, no: sa che questoPavese dei Dialoghi è sempre esistito accanto all’altro, quello dei romanzi; anzi senza questo l’altro non sarebbe possibile: sono un Pavese solo, insomma.
Questo nuovo libro può servire a scoprire quanta fatica, quanta ricerca anche erudita costi la sua tecnica creativa: scopre cioè il Pavese umanista; perché là dove qualcuno crederebbe di trovare uno scrittore il più spregiudicatamente moderno, i cui interessi si fermano ai Vittoriani e a Melville, c’è invece un filologo che si traduce e annota il suo pezzo d’Omero ogni giorno, e uno scienziato che ha sviscerato tutta la più avanzata cultura mondiale in fatto d’interpretazione delle religioni primitive. Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano. E ne sono nati questi Dialoghi.
Sembrerebbe che Dialoghi con Leucò sia un’arida ricerca di filologia mitologica: è al contrario un appassionato quadro di un’umanità alle soglie della coscienza, che abbandona l’età della comunanza assoluta con la natura, l’età dei mostri e delle metamorfosi, per sentirsi a un tratto come separata dalle cose a trasformare la natura in nomi e in dèi, e a trovarsi di fronte i dubbi del destino, della libertà, della morte.
Un’antica verità che ancora vive sotto le nuove forme, il paganesimo animalesco e sanguinario dei primi culti contadini, che rimanda a quello descritto da Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”.